Edoardo Dadone (1992) è conosciuto nel mondo della chitarra per le sue ineccepibili abilità di interprete. Affiancato a questo percorso, si fa sempre più strada una solida carriera da compositore. La sua musica per chitarra, infatti, è ricca di dettagli, di momenti estremamente complessi e che all’apparenza possono sembrare rocamboleschi agli occhi di un interprete, ma che nascondono una forma nitida ed un suono cristallino. Con il giovane artista cuneese, parleremo dei suoi ultimi lavori, analizzeremo il suo stile e conosceremo i suoi progetti futuri.
Grazie per aver accolto la nostra richiesta, Edoardo.
Oltre ad essere un compositore in ascesa, sei un interprete di riferimento delle sei corde. Cosa ti ha spinto ad intraprendere questa doppia carriera? Qual è stato il percorso di formazione che ti ha portato a fare questa scelta?
Grazie a te Giuseppe per avermi voluto dedicare questo spazio.
Sono stato e sono allievo molto fedele e fortunato, non essendomi mai trovato nella condizione di dover cercare guide a destra e a manca: le ho trovate.
Il mio primo insegnante è stato Stefano Viada, col quale ho iniziato e proseguito fino al diploma: mi ha impartito buone basi tecniche e musicali, ed è riuscito ad alimentare la mia curiosità fin dai primi anni. Dal 2008, su consiglio dello stesso Viada, ho iniziato a studiare con Luigi Biscaldi: maestro eccezionale, colto, profondo e attentissimo. A lui, che continua ad essere un riferimento non soltanto musicale, devo tante riflessioni sulla scrittura.
Notevole, poi, il biennio nel quale ho suonato in duo con Christian Saggese, dal quale ho appreso moltissimo -il gusto per la vertigine, anzitutto!
Per quanto riguarda la composizione, ho iniziato privatamente con Paolo Marenco, musicista di talento strabordante e tastierista dei Mistral Pusher, gruppo del quale faccio parte da una decina d’anni in veste di bassista elettrico: grazie a lui decisi di iscrivermi in conservatorio. Dopo un breve periodo con Aldo Sardo, che poi si trasferì a Torino, ho studiato fino al diploma con Giorgio Planesio: insegnante preparatissimo e caro amico, mi ha fatto amare anche gli aspetti più pedanti del fu vecchio ordinamento e devo a lui quasi tutta la mia preparazione accademica. In seguito, dopo il diploma, ho proseguito con Giorgio Colombo Taccani, che molte timidezze e molti insopportabili manierismi ha eliminato dalla mia musica -c’è ancora molto lavoro da fare…!
Fondamentale è stato l’incontro con Angelo Gilardino, del quale non sono mai stato allievo ma grande amico e appassionato interprete: la sua scomparsa segna la fine di un’epoca della storia della chitarra e di una fase della mia vita.
Nel mondo della musica contemporanea si indica spesso la collaborazione interprete/compositore come punto chiave nello sviluppo di un nuovo lavoro. Pensi che il tuo approccio sullo strumento sia cambiato nel momento in cui hai cominciato a scrivere per chitarra? In che modo hai organizzato la scrittura dei tuoi lavori?
Credo sia vero il contrario: il mio modo di scrivere è figlio del mio approccio allo strumento e dei suoi immancabili cliché.
Vorrei riportare un esempio: ho sempre avuto le unghie molto lunghe, così da impedire al polpastrello di frapporsi tra unghia e corda. Un limite, naturalmente, perché non ho mai usato il tocco appoggiato e non ho mai sperimentato le potenzialità del suono pastoso comunemente esibito dai chitarristi; un vantaggio, però, perché ho costruito una tecnica in grado di sviluppare rapidità estreme nelle volatine leggere e di avere un transitorio rumoroso e rapidissimo, da clavicembalo. Un suono vitreo, certo non seducente ma che mi ha permesso di esprimere quanto avevo da esprimere.
Come trasporre questa mia tecnica di pizzico? Credo un esempio rappresentativo sia costituito dall’incipit del Trittico: il tricordo gravissimo e deformato è pizzicato col polpastrello del pollice, mentre le altre dita sono impegnate nella produzione di puntiformi suoni sovracuti: uno scaglionamento verticale del suono che non ho mai avuto! Determinante è stato l’apporto del dedicatario del Trittico, Giovanni Martinelli, il chitarrista al quale penso di assomigliare di più.
Ascoltando i tuoi brani per chitarra si percepisce uno stile ben definito, ma in continua evoluzione. Da Lubrico (2018) a Trittico (2020), passando per gli Studietti d’arsura (2020), dai spazio alla preparazione dello strumento e crei un nuovo percorso sonoro attraverso una scordatura del tutto inedita. Cos’è cambiato secondo te tra un pezzo e l’altro?
Credo ci sia stato un cambiamento importante.
Lubrico fa parte dei miei primissimi lavori “veri”, che si caratterizzano per una certa ipertrofia dei materiali; gli altri due brani, scritti a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro, sono invece molto più controllati e asciutti.
Vorrei sottolineare un aspetto: l’unico, vero hapax presente in questi miei tre lavori riguarda il primo, cioè Lubrico: il corale a tre voci al quale si sovrappongono trilli di bitones. E’ un effetto del quale sono molto soddisfatto: semplicissimo per l’esecutore e dotato di sonorità ottima.
La scordatura estrema e la preparazione sono tutt’altro che novità: penso alla Sonata di Alessandro Solbiati, che presenta caratteristiche del tutto simili ed è stata scritta prima del mio Trittico.
Insomma, nessuna pretesa di originalità o di ardita ricerca sonora: tutto quello che in Trittico o negli Studietti può essere ascritto alle cosiddette “tecniche estese” esisteva da tempo. E’ cambiato il mio pensiero formale, che si è fatto via via più plastico pur a fronte di una superficie sonora più variegata: l’interesse per il suono è presente, ma in quanto entità sempre e nuovamente organizzabile.
“La caratteristica principale è la forma”, diceva Burri. E parlando dei Sacchi: “…lo taglio lì per lì in quel momento perché ho bisogno di una forma… una forma… una forma! Forma e spazio! Finito! Non c’è altro! Forma e spazio!”.
Il tuo catalogo di lavori contiene anche qualcosa di “insolito”: il Capriccio detto “dell’Ordalia”, per chitarra battente, strumento quasi sconosciuto fino a qualche anno fa e che grazie a Marcello De Carolis sta assumendo un ruolo tutto suo nel mondo della musica di nuova creazione.
Molto difficile venire a capo di una simile ferraglia, priva di suoni gravi e di timbri mutevoli: eppure si tratta di uno strumento bellissimo, dalla sonorità brillante e generosa.
Sentivo di dover essere semplice, semplicissimo: la partitura è un po’ menzognera, perché nasconde la facilità tanto ricercata. Marcello de Carolis, che è bravissimo, se ne è accorto subito.
Dopo la grande esperienza in qualità di Compositore in residence per la stagione 2021 di Divertimento Ensemble, quali saranno i tuoi progetti futuri?
Per il momento ho alcune commissioni da esaudire: ho quasi terminato un pezzo per marimba e violoncello per Simone Beneventi e Claudio Pasceri, e scriverò -credo nei mesi estivi- un ciclo di brani per voce e chitarra e un brano per chitarra elettrica.
Nel frattempo, spero di riposarmi un poco!
Uscito originariamente su Guitart n. 106