Riconosciuto come uno dei compositori più importanti della sua generazione, fin dai primi anni 2000 Oscar Bianchi ha scritto per numerose formazioni musicali, creando opere innovative che hanno dato vita a uno stile raffinato e a un linguaggio in continua evoluzione. La sua carriera è arricchita da esperienze significative, in cui la chitarra ha giocato un ruolo importante. In questo dialogo ripercorriamo i brani che hanno segnato la sua produzione per le sei corde.
Oscar, grazie infinite per aver accettato la nostra proposta. Hai svolto il tuo percorso di studi in centri di eccellenza per la musica di nuova creazione, come Milano, Parigi e New York, in cui hai partecipato a un programma di dottorato con Tristan Murail. In che modo queste esperienze hanno plasmato il tuo lavoro e cosa pensi ti abbiano lasciato di più significativo?
Ciascuna di queste esperienze ha rappresentato un capitolo chiave nella mia crescita intellettuale ed umana, e riconosco in ciascuna di esse le premesse al pensiero artistico che mi ha accompagnato fino ad ora. Milano fu la mia città natale, e con essa, e al conservatorio G. Verdi, si consumarono le prime espressioni dell’ideale; qui si accese la passione per un altrove sonoro ed un senso di ‘’missione’’ nei confronti del fare musica. Il contesto che (un Conservatorio molto celebrato in italia), per quanto straripo di lacune, mi permise, grazie a figure di spicco come Adriano Guarnieri, un lavoro di introspezione che si rivelò importante, soprattutto in relazione ad un senso di utopia, di unicità, che desideravo perseguire. Poi venne Parigi, la grande rivelazione nel mio percorso artistico e formativo, un luogo dove la cultura (ahimè a tratti quasi in opposizione al mio paese natale – questo fu il sentimento), è abbracciata, rispettata, celebrata e sostenuta. New York fu la tappa della maturità e della grande libertà culturale e personale, un veritabile nuovo mondo. La distanza geografica dall’europa (che fosse reale o percepita), assente quindi la necessità di cedere ad eventuali estetiche locali (che siano state francesi, italiane o tedesche – all’inizio del 2000 la nozione di scuola fu ancora estremamente forte), mi diede la forza e mi permise di difendere ancor più ciecamente un ‘’mio stile’’, le mie proposte musicali, cosa che, in quanto giovane compositore sentivo particolarmente fragili.
Nella carriera di un compositore, il percorso verso la scrittura per chitarra è spesso graduale: si inizia con la chitarra classica e ci si avvicina progressivamente alle sonorità elettriche. La tua storia, invece, sembra seguire un percorso inverso. Lines e Pictures of an Explosion, scritti nel 2000, includono non solo la chitarra elettrica, ma anche il basso. Da dove nasce questa scelta? Come ti sei avvicinato alle sei corde?
In quel periodo fresco da esperienze ed esplorazioni nell’ambito di gruppi di Rock progressivo e Fusion, l’immediatezza e l’esuberanza delle sonorità possibili con la chitarra elettrica ed il basso elettrico erano quindi parte sia della mia fibra musicale di quel periodo, che della visione di un suono a tratti borioso, preponderante, anti-borghese al quale desideravo non prescindere. Cercavo quindi di coniugare la freschezza che avevo percepito in quel mondo extra-classico / non classico-contemporaneo (senza abbracciarne però riferimenti o cliché stilistici), con un linguaggio musicale misterioso, assoluto.
Dopo Mezzogiorno, scritto nel 2005, componi Zaffiro per chitarra, viola, flauto basso e sax baritono. Dopo quasi cinque anni dal tuo primo approccio alle sei corde, appare la chitarra classica. Quali difficoltà hai incontrato nel comporre per questo strumento? E quali differenze hai notato nel passaggio dalla chitarra elettrica a quella classica?
Le difficoltà furono quelle di trovare un equivalente a quell’anima graffiante e complessa tipica della chitarra elettrica, simulandone quell’immediatezza, quel senso di urgenza che mi ha sempre affascinato ed interessato negli strumenti a corde. Questo si tradusse in un uso della chitarra acustica piuttosto teso, spericolato, con tuttavia note ancora idiomatiche (rispetto a « Thick Skin » per esempio), al contempo la chitarra classica, anche in questo contesto, permise un senso di contemplazione del suono (acustico, si pensi alle meravigliose risonanze naturali), il cui valore ed interesse mi portò poi verso il lavoro spirituale della cantata « Matra ».
Nel 2007 scrivi Matra per Ictus Ensemble e Neue Vocalsolisten-Stuttgart, includendo la chitarra elettrica. Inserire questo strumento in un ensemble così ampio è stato difficile? Quali sfide hai affrontato?
In questo caso non fu affatto difficile, poiché la chitarra elettrica era, nel mio immaginario, parte integrante di un ‘’arsenale sonoro’ oramai in via di definizione. E la sua irruenza, così come la sua capacità contemplativa, fu strumentale nella messa in opera di quell’altrove che la cantata Matra cercava.
Dopo Stone Rhapsody nel 2008, per chitarra, due pianoforti e due percussioni, la tua produzione per chitarra si interrompe per alcuni anni. Durante questo periodo, ti concentri su grandi composizioni per ensemble (come il Vishudda Concerto, per 19 elementi, scritto nel 2009) e orchestra (penso Inventio o Exordium, composte tra il 2015 e il 2016). Cosa ti ha portato a una pausa?
Ho trovato che fosse importante confrontarmi con forme musicali e con contesti sonori diversi dai quelli che avevo meticolosamente costruito; in parte per un senso di sfida, un ambizione intellettuale forse, e soprattutto un tentativo di non discriminare mondi sonori nei quali avrei potuto trovare altre risposte, altre declinazioni del mio linguaggio.
Il tuo ritorno alla musica per chitarra sola è segnato da grandi esperienze. Nel 2014, Nico Couck riceve il Kranichsteiner Stipendienpreis e nel 2016, ai Darmstädter Ferienkurse, esegue Ballerina per chitarra elettrica. Questa collaborazione ha portato alla creazione di Étoile, nel 2020, eseguito a Sochi nel febbraio dello stesso anno. Come è nato tutto questo?
Grazie alle proposte di Nico mi fu data la chance di riavvicinarmi allo strumento sotto una prospettiva completamente nuova. Desideravo ambire a un’esplorazione completa e personale di questo strumento, mettendolo al centro di nun nuovo virtuosismo musicale, compositivo, ma soprattutto simbolico.. Se « Ballerina » fu uno spazio creativo molto ampio, libero, il cui output fu a tratti concettuale, « Étoile » fu a tutti gli effetti un’esplorazione a tutto tondo delle possibilità semantiche che questo strumento mi rivelò in quel periodo intriso dal desiderio di espanderne espressività e candore senza esclusioni. Per questa ragione troviamo al suo interno la connivenza tra una cadenza-omaggio a Van Halen (icona storica che poi scomparse dieci mesi dopo la prima di Étoile) e l’astrazione dei battimenti di suoni pedale (i cui parziali prodotti dalle distorsioni diventano poi materiale armonico abbracciato e sviluppato dall’orchestra).
Nel 2016 hai scritto Reinforced Sympathy per due ouds, strumenti molto particolari e difficili da controllare al momento della scrittura. È stata, tra l’altro, una collaborazione con la Società Europea e quella Egiziana di Musica contemporanea. Com’è stata questa esperienza?
Come dicono in america, un reality check, o meglio, una doccia fredda, quello dalla mia ignoranza direi. Dopo aver lavorato per settimane con due magnifici interpreti al Cairo, e col supporto di Elena Schwarz (ed aver integrato un poema classico di Al-Mutanabbin in arabo al fine di aiutare le scansioni ritmiche altrimenti troppo astratte per i musicisti), mi sono reso conto che, come con molti musicisti di estrazione tradizionale, la scrittura musicale non ha medesimo valore quanto la trasmissione orale e l’improvvisazione. Risultato, ogni mattinata successiva, i musicisti non ricordavano praticamente nulla del solido ed impressionante lavoro che avevano intrapreso i giorni prima. Detto questo, numerose rivelazioni provenienti da questa ricca esperienza furono poi elaborate sia nel mio brano orchestrale « Inventio » per l’orchestra sinfonica della radio bavarese (BRSO) che, in altra forma in « Thick Skin ».
Nel 2018 esplori una formazione inusuale: componi Circled Existence per Marc Sinan e i Neue Vocalsolisten-Stuttgart. In questa composizione non c’è solo la chitarra elettrica, ma anche una chitarra a 12 corde, con una scala più ridotta. Qual è stata la ragione di questa scelta?
Un nesso semantico tra uno strumento con un ruolo concertante, quindi fondamentale ma non solistico, ed il mondo eterogeneo ed organico dei sei cameristi vocali. Le dodici corde, nella loro euforica ‘’simpatia’’, permettevano quindi sia di generare complessità e ricchezza di battimenti all’interno dello sturmento concertante, così come ‘’compensare e sfidare’’ le sei voci che accompagnava.
Thick Skin (Stratum Lucidum), del 2022, è il tuo ultimo lavoro per chitarra classica sola, in cui Francesco Palmieri si confronta con l’elettronica. Un brano tanto raffinato quanto aggressivo, che esplora lo strumento in tutte le sue possibilità dinamiche, spingendolo ai limiti delle sue capacità. Quali sono state le sfide più stimolanti nella sua creazione?
Questo è un lavoro che potrei definire perno, dove per la prima volta, assieme ad intuizioni già provenienti da « Ballerina » (2016), ho perseguito una ‘’temporalità espansa’’, un senso del tempo che fosse plastico, imprevedibile, e catartico. E questo avviene attraverso la ricerca di sonorità parzialmente imprevedibili ed organiche, a tratti quasi anti-idiomatiche nel senso forse più tradizionale.
Plenty for Two, scritto per MusikFabrik, vede Yaron Deutsch alla chitarra e rappresenta il punto più recente della tua produzione con questo strumento. Nel corso della tua carriera hai collaborato con grandi solisti come Mats Scheidegger, Tom Pauwels, Nico Couck, Marc Sinan, Francesco Palmieri e Yaron Deutsch, figure che hanno segnato e tutt’oggi fanno parte della chitarra contemporanea. Quanto influenza la figura dell’interprete il momento della composizione di un brano?
Enormemente, i brani che scrissi in collaborazione con ciascuno di questi interpreti hanno risentito molto della loro storia personale nei confronti dello strumento. Inoltre è stato attraverso di loro che idee in embrione si sono potute sviluppare. Si pensi al tremolo iniziale di Thick Skin, fu un immagine chiara, un sentire forte, cosa che però, senza la declinazione e le proposte tecniche di Francesco, non si sarebbe potuta realizzare. L’influenza della figura dell’interprete e l’interazione col compositore è sovente una processo di osmosi tra ciò che l’autore sente e quello che i grandi interpreti propongono, suggeriscono; la realizzazione di universi sonori che ci chiedono di emergere, attraverso quindi, in parte, uno sforzo collettivo.
Quali sono gli elementi che non dovrebbero mai mancare nel ruolo di docente?
La capacità di far scomparire completamente l’io (del docente), di diventare antenna a soluzioni possibili grazie a malleabilità ed intuizione. Condividere l’essenza dell’ispirazione.
Da diversi anni curi la Young Composers Academy in Ticino. Da dove nasce l’idea?
Dal desiderio di incontro, di crescita, di condividere il mio cammino, la mia esperienza con quella delle giovani leve, e quella di confrontare idee provenienti da ambiti geograficamente ed intellettualmente a volte quasi impossibili da coniugare, per dare luogo ad un futuro musicale senza confini.
Usi un metodo di lavoro particolare durante le lezioni?
Assente l’io, l’ego, divengo, mi trasformo, mi adatto, mi adeguo a seconda di chi ho di fronte. Nessuna persona è identica, e nessun interlocutore merita, consciamente e inconsciamente, medesime reazioni, medesimi propositi.