Ramon Lazkano (*1968) è uno dei compositori più riconosciuti della sua generazione. I suoi lavori vantano la collaborazione di ensemble quali Ensemble Intercontemporain, Ictus, Ensemble Recherche, Quartetto Diotima, Orquesta Nacional de España, Orchestra della Radio di Baviera, Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai. È risultato vincitore di numerosi premi internazionali, quali Fondation Prince Pierre de Monaco e Premio Georges Bizet dell’Académie des Beaux Arts, oltre ad essere stato riconosciuto come artista in residenza presso la Real Academia de España e l’Académie de France a Roma.
Descrivere la sua musica risulta complesso: la sua idea di suono racchiude dettagli che toccano il silenzio, evocano poemi, paesaggi, sorretti però da una struttura forte, segno tangibile della sua notevole personalità artistica.
Ad Obiettivo contemporaneo parliamo dei suoi lavori per chitarra, della sua carriera ed i suoi progetti.
Ramon, grazie per aver accettato il nostro invito. Il tuo repertorio per chitarra è vasto, figlio di una tecnica che ha marcato una traiettoria ben precisa ed ha definito la tua estetica in tutti i suoi aspetti. Come ti sei avvicinato alla chitarra?
La chitarra mi ha accompagnato fin da piccolo, nonostante non sia mai stato un chitarrista. Nella mia stanza, vicino al piano sul quale studiavo tutti i giorni, ne avevo una che suonicchiavo di tanto in tanto, per conoscerla meglio, in quanto per me restava uno strumento di una familiarità un po’ impenetrabile. Nel Conservatorio di Parigi, durante i miei anni di studio, ho avuto modo di conoscere Didier Aschour, un grande amico al quale ho dedicato diversi lavori. Un po’ più tardi, negli anni ’90, fu l’incontro con Eugenio Tobalina, chitarrista che in quegli anni concentrava la sua attività sulla musica di nuova creazione basca, il quale mi mise realmente in contatto con lo strumento in veste di compositore. Caroline Delume e Francisco Luque, entrambi chitarristi, mi sono molto vicini, grazie al Colegio de España e di Felix Ibarrondo. Tutto prese corpo progressivamente, una somma di brani, di contatti, di dettagli che mi hanno permesso di esplorare uno strumento la cui ergonomia mi ha sempre affascinato.
Come sappiamo, scrivere per chitarra è molto complicato. La tua musica, tuttavia, non sembra soffrire alcun tipo di difficoltà tecnica: ogni dinamica, scelta timbrica e frase sono parte di una struttura, di una direzione. Quali difficoltà hai trovato scrivendo per questo strumento?
Grandi difficoltà, lo confesso! Ricordo di aver disegnato un grafico con tutte le indicazioni per studiare le posizioni sulla chitarra, anche se non risultò essere molto efficace… La chitarra mi ha sempre provocato un’idea d’intimità: l’abbraccio del musicista al suo strumento è evocativo, il modo in cui abbassa la testa ed i due attori raccontano i propri segreti. Le sei corde mi hanno permesso di esplorare tecniche diverse che hanno avuto effetti decisivi nella musica: i tasti microtonali, la scordatura, il rasgueado, la percussione. In Malkoak Euri Balira (Se le lacrime fossero pioggia, tratto da un poema di Xabier Lete), per due voci e tre cori, dietro il coro centrale si dissimula un monitor che diffonde il suono di una chitarra nascosta e che suona dietro il palcoscenico: è come un enigma, una presenza invisibile che emana un’aura sonora inaspettata. Per me, era una forma di trascendere rispetto alla mia idea della canzone popolare, di salvaguardare la voce accompagnata da una chitarra, in un contesto che la poesia converte in magia.
È da poco uscito un album pubblicato da Odradek Records, in cui Neue Vocalsolisten, L’Instant Donné, Johanna Zimmer e Manuel Nawri interpretano alcuni lavori da camera, come Main Surplombe (2013), per soprano e sette strumenti; inoltre, sono stati pubblicati i Preludios, uno dei tuoi lavori più recenti. Potresti parlarci un po’ di questi brani? In entrambi, la chitarra è parte dell’ensemble: com’è il tuo approccio alla scrittura quando questo strumento fa parte di un gruppo cameristico?
Main Surplombe è stato un incarico dell’amico, chitarrista, artista e compositore, Bertrand Chavarría-Aldrete. La relazione con Bertrand è stata fondamentale sotto molti aspetti e fu proprio dalla nostra vicinanza che nacque Ezkil, per chitarra con scordatura microtonale. Nel secondo pezzo del dittico su alcuni poemi di Jabés, Ceux à Qui, utilizzo la chitarra, però questa volta manipolata da un percussionista. Per quel che riguarda i Preludes, sono necessarie tre chitarre: due classiche (tra le quali una con scordatura) ed una folk suonata con un e-bow. Brevemente, per me la polifonia è un’irradiazione del tessuto sonoro rispetto all’efficacia strumentale iniziale, un’estensione delle condizioni che danno vita al suono. Qualcosa di simile diceva Stravinsky, riferendosi al suo ottetto -con implicazioni estetiche distinte, naturalmente- quando spiegava che le forme di polifonia appaiono in base alle qualità specifiche degli strumenti.
Di origine basca, vivi da anni a Parigi. Ti sei formato musicalmente grazie alla musica corale, hai studiato piano e composizione. Come si è sviluppata la tua carriera artistica? Cosa ti ha portato a scrivere?
Nel mio caso, la scrittura ed il pianoforte non furono attività che si svilupparono in due tempi diversi, ma in maniera simultanea. Cantavo fin da piccolo, ho partecipato al coro della scuola e poi del liceo, parallelamente al mio primo contatto col piano (un vecchio Pleyel verticale, nero e pesante, con i tasti in avorio scolorito) in casa di mia nonna, grazie alla quale mi avvicinai allo strumento e all’improvvisazione. Ricordo che i miei primi esperimenti legati alla scrittura furono a 7/8 anni, e che verso i 12/13 avevo già scritto piccoli pezzi per piano che suonavo in qualche recital scolastico. Niente nello specifico mi ha portato a comporre, non vengo da una famiglia di musicisti professionisti tranne forse mia zia, che era organista e che mi presentò, verso i 14 anni, colui che divenne il mio insegnante a San Sebastián, il compositore Francisco Escudero, una grande persona che mi ha impartito lezioni indelebili. Non ho mai messo da parte la pratica musicale: il piano continua ad essere l’attore centrale della mia esistenza come musicista. Ho diretto, programmato, prodotto, insegnato: penso che tutto questo mi permetta di vivere in accordo con quello che la musica rappresenta per me.
Questi anni di pandemia hanno trasformato il mondo della cultura, accentuando tutte le difficoltà che il settore stava già affrontando. La Spagna, il País Vasco, continuano a soffrire tutto questo: come vedi la situazione culturale nel tuo paese? Credi che possa esserci un cambio dopo due anni così difficili?
Il mio paese non è un territorio, il mio paese è una comunità di affetti, un contesto vivo che mi accoglie, ognuna con le sue lingue familiari che mi permettono di dire lo stesso, ma in modo diverso; il mio paese è fatto di persone che sognano, inventano e che pensano al mondo con la fragile temporalità che li abbaglia. In questi giorni ho letto un bellissimo poema di Jose Antonio Artze in euskera, Gure bazterrak, che dice: “Amo i nostri angoli quando la nebbia li nasconde e mi impedisce di vedere quello che occulta, perché da allora comincio a vedere la parte nascosta, gli angoli meravigliosi che illuminano il mio interno”. La “Situazione culturale” (è un ossimoro?) è una nebbia, un pretesto per non vedere cambi inesorabili, un rimprovero che viene dai piani alti: il problema non è la situazione culturale, ma il modello economico e sociale che ci converte in schiavi di un pensare mitigato e imbavagliato. Questo è globale, non specifico di un territorio.
La tua carriera artistica non è legata solamente alla composizione: da diversi anni lavori come docente presso il Centro Superior de Música del País Vasco Musikene. In che modo imposti le tue lezioni? Come vedi la nuova generazione di compositori?
Ho idee oscillanti sulla maniera in cui si possa offrire un’educazione ai giovani, in particolare in un terreno come il nostro che è tecnico, artigianale e metodico, però che deve disfarsi di queste acquisizioni iniziali per trovare le condizioni che danno vita ad un’immaginazione all’erta e di una fantasia libera. Suppongo che il mio modo di insegnare tende a stabilire uno scambio che metta in conto la personalità specifica di ogni studente. Immagino, però, appariranno nel mio modo di condividere la mia esperienza e la mia pratica, momenti di un insegnamento che già non appartiene alla nostra epoca, perché tutto il contesto di trasmissione è stato modificato radicalmente con le nuove tecnologie ed i vari gradi di comprensione. I giovani compositori assumono un’eredità per trasformarla in una metamorfosi che è legata direttamente al mondo che hanno incontrato, alle proprie condizioni di vita, alle sue crisi ecologiche e sociologiche, all’erosione delle ideologie e alla miscredenza della politica parlamentare. Tutto questo mi pare si rifletti in un’alterazione essenziale dei valori che nella mia generazione pensavamo con grande ingenuità non sarebbe mai esistita. Il contatto visivo, la velocità d’informazione, il pensiero dell’attività socio-artistica come valore superiore all’oggetto immanente, sono aspetti di una rivoluzione in corso in cui le forme di ascolto, di tempo e di architettura del suono, sembrano in estinzione dal mio punto di vista, però per i giovani sono selve da esplorare e oasi per la loro sete.
Hai progetti futuri che vedono la chitarra come protagonista?
Al momento no: sto lavorando a un concerto per pianoforte che sarà eseguito in prima assoluta da Alexandre Tharaud e l’Orchestre National de France con François-Xavier Roth il prossimo febbraio. Non escludo affatto, però, la possibilità di continuare ad utilizzare le sei corde in altre musiche, o addirittura di dedicare alla chitarra un ruolo da solista, idea evocata più volte e purtroppo rimandata fino ad oggi.
Uscito originariamente su Guitart n. 107